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Il disturbo socio-pragmatico comunicativo. Dalla valutazione all’intervento.

Il disturbo socio-pragmatico comunicativo. Dalla valutazione all’intervento.

Il disturbo socio-pragmatico comunicativo. Dalla valutazione all’intervento.

Il disturbo socio-pragmatico comunicativo si riferisce a quei quadri sindromici caratterizzati da difficoltà persistenti nell’uso sociale della comunicazione. Lo sviluppo delle competenze sociocomunicative e pragmatiche inizia all’interno della diade genitore bambino, per poi estendersi agli altri contesti relazionali significativi e allargarsi nei gruppi sociali di appartenenza.

Con il contributo di importanti studiosi della materia, il libro propone un’analisi completa del disturbo, linee guida di riferimento, modelli di valutazione e spunti operativi di intervento basati su un approccio scientifico e al contempo biopsico-sociale.

Questo libro tratta di linguaggio da un punto di vista eminentemente clinico. Ma perché il linguaggio dovrebbe essere oggetto di studio?
Esistono diversi spunti su cui incentrare una riflessione preliminare e che fanno riflettere sull’importanza dello studio del linguaggio. Uno dei primi fenomeni che hanno senz’altro colpito l’attenzione non solo dei (neuro)scienziati cognitivi interessati all’analisi dei rapporti tra cervello, mente e linguaggio, ma anche dei parlanti in generale, riguarda il fatto di avere una parola sulla punta della lingua (il fenomeno è spesso indicato con l’acronimo TOT, dall’espressione inglese Tip-Of-the-Tongue).

Si tratta dei casi in cui si ha una parola in testa ma non la si riesce a produrre. In relazione a questo fenomeno non è tanto interessante capire quello che non sappiamo della parola che non riusciamo a produrre, quanto quello che sappiamo di essa. Tanto per cominciare ne conosciamo il significato. Questo indica che abbiamo ben chiaro in testa quello che vogliamo dire anche se non riusciamo a dirlo.

In secondo luogo, abbiamo anche delle informazioni di tipo morfologico e grammaticale: sappiamo, ad esempio, se si tratta di un nome maschile o femminile o di un verbo. In alcuni casi sappiamo anche dire con una certa vaghezza se la parola in questione sia lunga o corta.

Eppure, nonostante la disponibilità di informazioni relative al significato (semantiche), alla struttura della parola (morfologiche) e al suo ruolo nella frase (grammaticali), queste parole proprio non riusciamo a produrle! È quindi evidente che un modello teorico della nostra capacità di produrre una parola debba prevedere come minimo due fasi elaborative: una in cui accediamo al suo significato e a informazioni morfologiche e grammaticali e una in cui abbiamo accesso alla forma della parola da produrre, ovvero alle sue informazioni fonologiche e fonetiche. Un secondo aspetto riguarda il fatto che spesso i parlanti commettono degli errori durante la produzione di parole.

Tali errori possono essere di varia natura. A volte potrebbe trattarsi di errori concettuali come nel caso delle parafasie verbali, ovvero parole semanticamente errate e completamente avulse dal campo semantico generato dalla parola che si intendeva produrre. Un esempio di questo tipo potrebbe essere la produzione della parola «gatto» al posto della parola target «divano». In altri casi potrebbe trattarsi di errori sempre di natura semantica ma meno gravi, come nella produzione di parafasie semantiche, parole semanticamente errate ma all’interno del campo semantico della parola target (ad esempio, «sedia» al posto di «divano»). In altri casi ancora potremmo compiere degli errori di natura morfologica, ad esempio dei paragrammatismi legati, parole errate per l’inserzione di un morfema sbagliato, come la -i finale in «divani» al posto del morfema corretto -o nella parola corretta «divano».

Errori possono anche coinvolgere la forma fonologica della parola, come nel caso delle parafasie fonologiche. Prendendo ad esempio la parola «divano», una parafasia fonologica potrebbe consistere nella produzione di una parola in cui sia stato inserito (*dirvano),2 omesso (*divao), invertito (*divona) o modificato (*tivano) un fonema. Infine, nel caso in cui una persona avesse importanti difficoltà articolatorie potrebbero essere prodotte delle parafasie fonetiche, caratterizzate dalla presenza di inserzioni, omissioni o modificazioni dei foni (cioè i suoni) che effettivamente sono presenti nella parola emessa.

È evidente che la produzione di errori di questo tipo indica l’esistenza di diverse fasi elaborative durante la produzione di una parola: una fase concettuale (parafasia verbale), una fase semantica (parafasia semantica), una fase morfologica (paragrammatismo legato), una fonologica (parafasia fonologica) e articolatoria (parafasia fonetica). Ulteriori spunti che portano a far lievitare l’interesse per lo studio del linguaggio riguardano l’osservazione di pazienti con disturbi del linguaggio.

Si pensi a disturbi acquisiti come le afasie, che, in seguito a lesioni cerebrali, possono portare alla perdita di diverse abilità linguistiche. Vi sono persone che perdono la capacità di produrre in modo fluente le frasi che hanno in mente ma che capiscono gran parte di quel che viene detto loro. Altri potrebbero avere un eloquio fluente ma incomprensibile e non riuscire a capire nulla di quanto viene detto loro. Esistono poi individui che possono presentare disturbi limitati alle abilità di lettura (dislessia acquisita o alessia) o di scrittura (agrafia), ma anche bambini che non sviluppano correttamente la capacità di parlare e/o capire quanto viene detto loro (ad esempio, bambini con disturbo primario del linguaggio), oppure incapaci di imparare a leggere (bambini con dislessia evolutiva) o a scrivere (bambini con disgrafia evolutiva), come anche bambini in grado di parlare ma incapaci di usare correttamente il linguaggio in chiave comunicativa (ad esempio, bambini con disturbi dello spettro autistico).

Anche in questo caso è evidente come lo studio del funzionamento del linguaggio sia fondamentale per consentire ai clinici di mettere a punto batterie di test volte a esplorare il livello di maturazione e/o funzionamento delle abilità linguistiche in persone in difficoltà, interpretarne correttamente i sintomi ed elaborare percorsi riabilitativi sempre più consapevoli ed efficaci. Infine, un’ultima serie di spunti deriva dall’osservazione del modo in cui i bambini apprendono la lingua a cui sono esposti (definita prima lingua o L1). Spesso si sente affermare che l’apprendimento di una L1 sia estremamente facile e veloce, specialmente se confrontato con l’apprendimento di una seconda (L2) o terza (L3) lingua da adulti. In realtà, a un osservatore attento non sfuggirà che l’apprendimento di una L1 è tutt’altro che veloce e immediato. In effetti, lo sviluppo del linguaggio comincia già durante la gestazione, molto prima della nascita. A partire dal quinto/sesto mese, ad esempio, i feti danno già prova della capacità di discriminare suoni acusticamente differenti e di abituarsi ad essi, oltre ad essere già in grado di identificare le vocali di una lingua (Groome et al., 2000). Nonostante ciò, dopo la nascita i bambini riescono a modulare i primi suoni non prima del terzo/quarto mese di vita, danno segno di comprendere le prime parole intorno agli 8-9 mesi, focalizzano l’attenzione uditiva sui fonemi della lingua parlata dagli adulti (Kuhl, 2010), producono le prime parole intorno all’anno di vita, il loro repertorio lessicale raggiunge le 50 parole in memoria che costituiranno la base per produrre enunciati costituiti da almeno due parole intorno ai 18 mesi. Verso i 3 anni il loro eloquio comincia ad essere comprensibile anche per persone al di fuori della cerchia familiare. Poi il loro sviluppo procede gradualmente nel tempo e, se tutto va bene, saranno in grado di scrivere un tema ben organizzato a livello linguistico e concettuale non prima dei 15/19 anni. Nel complesso, dunque, affermare che l’apprendimento di una L1 avvenga in modo semplice e rapido implica non comprendere appieno la complessità dello sviluppo del linguaggio. Una cosa però è certa: quando osserviamo un adulto imparare una L2 notiamo immediatamente la differenza. Questi ultimi due esempi confermano ulteriormente la necessità di comprendere a fondo le caratteristiche del linguaggio umano in modo da implementare paradigmi di insegnamento, valutazione e, se necessario, supporto e riabilitazione sempre più efficaci e consapevoli. Prendendo spunto da queste riflessioni di carattere generale, il presente capitolo mira a introdurre i concetti chiave alla base delle tematiche affrontate in questo libro. Nello specifico, dopo aver introdotto il concetto di competenza, l’attenzione verrà focalizzata sulle caratteristiche della competenza comunicativa non verbale (cinesica, aptica e prossemica) e verbale (paralinguistica e linguistica) con particolare attenzione alle strutture e ai processi del linguaggio.